|
|
|
|
|
|
inserito il: 17-4-2010 |
MICROCREDITO, DUE RICERCHE SMONTANO IL MITO |
|
di Anna Bono |
|
A Nairobi, Kenya, si è concluso il 9 aprile l’annuale summit internazionale dedicato al microcredito, il sistema di prestiti da 34 anni anni proposto come efficace motore di sviluppo, strumento eccellente per combattere la povertà tanto da meritare all’istituto di credito che lo ha inaugurato nel 1976, la Grameen Bank, e al suo ideatore, l’economista bengalese Mohammed Yunus, noto come “il banchiere dei poveri”, il Premio Nobel per la pace 2006.
Nell’insieme i convenuti hanno confermato la piena fiducia in questo sistema finanziario auspicandone il potenziamento in alternativa agli istituti di credito tradizionali. Ma dall’analisi di due recenti, accurati studi realizzati in India e nelle Filippine, l’economista francese Esther Duflo ha ricavato invece un bilancio per niente entusiasmante.
Il microcredito è stato pensato per fornire piccoli capitali a persone solitamente incapaci di ricorrere ai servizi finanziari per mancanza di beni e di prospettive di guadagno tali da garantire gli enti di credito: problema a cui si aggiunge spesso un fattore ulteriore di esclusione dato da livelli di istruzione e da situazioni sociali che non consentono di prendere anche solo in considerazione la possibilità di mettere piede in una banca e di chiedere un colloquio con il direttore.
I capitali si intendono destinati ad avviare o a potenziare delle attività lavorative permettendo ai destinatari dei crediti di superare il livello delle economie di sussistenza (quelle tradizionali per lo più agricole e quelle moderne urbane del cosiddetto settore informale). Ne dovrebbero derivare un netto miglioramento delle condizioni di vita delle famiglie interessate e, come si è detto, contributi apprezzabili in termini di sviluppo delle economie nazionali dei paesi poveri.
Ma le due ricerche seguite da Duflo rivelano che invece la vita dei fruitori di microcrediti non cambia significativamente e che anzi, per il fatto di dover restituire il prestito, la maggior parte delle famiglie riducono i consumi non primari. I tassi di interesse infatti sono elevati e il rimborso inizia subito, senza periodi di grazia. Inoltre la comunità a cui appartiene il fruitore di un microcredito è tenuta a restituire il denaro in sua vece in caso di fallimento, ma non ne condivide gli utili in caso di successo e quindi non incoraggia l’assunzione di rischi da parte dei propri membri. Questo contribuisce a far sì che i finanziamenti servano soprattutto a svolgere le consuete attività commerciali e produttive – si acquista una macchina da cucire, qualche attrezzo, una bicicletta, piccole quantità di merci... – che a mala pena forniscono un reddito adeguato ai bisogni del proprietario migliorando di poco le condizioni di vita della sua famiglia.
In sostanza si continuano a praticare attività di sussistenza, condotte senza apporti realmente innovativi, scegliendo settori già collaudati, con il risultato di moltiplicare l’offerta di prodotti e servizi senza che un consistente incremento dei redditi ne aumenti la domanda: si moltiplicano, ad esempio, bancarelle e negozietti che vendono gli stessi articoli e che, a causa degli scarsi profitti, non riusciranno mai a trasformarsi in esercizi commerciali moderni.
Si ipotizza addirittura che l’indebitamento dei microcreditori possa essere una delle cause dell’aumento dei suicidi registrato negli ultimi anni tra i contadini indiani.
Più in generale l’esperienza del microcredito insegna una volta di più che per lo sviluppo non bastano denaro e nuove opportunità. Come spiegava don Desiderio Pirovano nel suo primo saggio dedicato ad analizzare le cause della povertà – Poveri, perché? Un cristiano s’interroga, Sperling & Kupfer, 1995 – per crescere occorre “risparmiare, investire, produrre e vendere e non tutti gli uomini, come non tutti i popoli, sanno risparmiare, investire, produrre e vendere allo stesso modo” (p.66).
Occorre istruzione per saper fare bilanci, previsioni di spesa e di mercato, per tenere la contabilità necessaria al buon andamento anche di un’impresa minuscola. Occorrono inoltre trasformazioni culturali radicali che, in luogo delle istituzioni tradizionali, portino volontà di progresso, cooperazione in ambito familiare, stimoli alla creatività, rispetto del lavoro manuale e di chi lo svolge, lungimiranza nel progettare il futuro dei figli, pari opportunità a prescindere da fattori ascritti quali il sesso, la posizione della famiglia di origine e l’anzianità.
Ma neanche questo è sufficiente. L’illusione di un cambiamento dal basso non tiene conto dell’ostacolo immenso allo sviluppo, di fatto insuperabile, rappresentato da apparati statali controllati da leadership inadeguate. Come altre iniziative pensate per sradicare definitivamente la povertà, anche il microcredito non riesce a rimediare ai danni provocati in gran parte dei paesi poveri dalla corruzione endemica, dal malgoverno, dall’instabilità politica, oppure dalla stabilità garantita con gli strumenti della repressione e del consenso clientelare, dalla conflittualità anch’essa endemica, causa incessante di morti e di profughi. |
|
|
|