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| inserito il: 4-10-2007 |
| Non moriremo di caldo |
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| di Riccardo Cascioli |
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“I negazionisti vanno isolati”, reclamavano i Verdi all’indomani della Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici. E il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-Moon, ad analoga conferenza internazionale ha voluto la settimana scorsa Al Gore proprio per contrastare i “negazionisti” del riscaldamento globale. L’epiteto di negazionista - riferito a chi contesta la versione ufficiale sui cambiamenti climatici decisa da Onu e governi europei – si usa ormai con sempre maggiore frequenza per intimidire e far tacere le voci del dissenso. Il negazionismo rimanda infatti direttamente a coloro che negano lo sterminio degli ebrei da parte di Hitler, e per analogia chi mette in discussione la responsabilità umana nei cambiamenti del clima deve dunque essere trattato alla stregua di un volgare razzista anti-semita.
E’ la dimostrazione che il circo messo in piedi sui cambiamenti climatici ha molto più a che fare con la politica che non con la scienza, anche perché di certezze scientifiche in materia di clima ve ne sono davvero poche, e quelle poche vengono oltretutto ignorate se non addirittura rovesciate dal pensiero dominante in materia. A cominciare dalla realtà più semplice, ovvero che il cambiamento climatico rappresenta la normalità. Il bombardamento mediatico ha invece indotto nell’immaginario collettivo l’idea che la natura sia normalmente in un equilibrio armonico, disturbato soltanto dall’attività dell’uomo. Così il cambiamento del clima – per non dire della variabilità meteorologica – sarebbe già di per sé un segnale di anormalità. Un approccio rafforzato nel quotidiano dal tono allarmato con cui il meteorologo di turno ci spiega che la temperatura del giorno è stata di un grado o 2 sopra o sotto la media stagionale, elemento che invece ha soltanto un valore statistico e non indica affatto stravolgimenti di alcun genere.
In effetti, lo studio delle carote di ghiaccio estratte in Groenlandia e soprattutto nella base di Vostok (Antartide) ha mostrato che negli ultimi 400mila anni il clima è sempre mutato con una certa ciclicità, con periodi glaciali di circa 90-100mila anni e brevi periodi di “caldo” di circa 10mila anni. Al momento viviamo proprio in una fase interglaciale iniziata circa 11mila e 500 anni fa, che ha coinciso con il grande sviluppo della civiltà umana. Peraltro l’attuale periodo, denominato Olocene (dal greco holos=recente), appare più lungo dei precedenti periodi caldi, il che fa capire perché diversi scienziati siano propensi a credere che nel futuro sarà più probabile un rapido raffreddamento piuttosto che un pianeta con una febbre incontrollabile.
Ma anche all’interno dei periodi interglaciali il cambiamento del clima è tutt’altro che lineare: tanto per non andare troppo indietro, troviamo ad esempio che tra il IV secolo avanti Cristo e il IV d.C. – all’epoca dell’Impero Romano – in Europa si registrò un notevole riscaldamento, con temperature più alte delle attuali, tanto che si ricorderà l’impresa di Annibale che nel 218 a.C. attraversò le Alpi con gli elefanti. In questi secoli il clima mediterraneo arrivava fino alle coste del Baltico e del mare del Nord, ma dal V secolo si ebbe un nuovo raffreddamento che terminò nell’800 quando ebbero inizio i 400 anni conosciuti come Optimum medievale, un altro periodo con temperature più calde delle attuali. Come ha riferito a un convegno tenutosi nei giorni scorsi in Trentino, il professor Attilio Scienza, docente di viticoltura all’Università di Milano, “nel 1200 il clima era così mite che qui in Trentino a 1.300 metri crescevano viti e ulivi, mentre le cronache dell’epoca raccontano che persino la Scozia era autosufficiente per la produzione di tutto il vino da messa”. Ancora un brusco cambiamento climatico porterà alla Piccola Era Glaciale, tra il 1300 e la fine del 1700, in cui si registrerà anche l’inverno più freddo degli ultimi 5 secoli, il 1708-1709, in cui si ricordano ghiacciati addirittura il Lago di Garda e la laguna di Venezia. Attualmente siamo in una nuova fase di riscaldamento che negli ultimi 120 anni ha fatto registrare un aumento della temperatura media globale di 0.7°C, ma anche questa non in modo lineare. Il maggiore aumento si è avuto tra il 1910 e il 1940 (ancora nel 1912 il Titanic affondò dopo aver urtato un iceberg all’altezza di New York!) mentre tra il 1940 e il 1975 le temperature sono diminuite al punto che negli anni ’70 gli allarmi riguardavano una prossima era glaciale e c’era chi proponeva di incrementare artificialmente le emissioni di gas serra per ridurre gli effetti della glaciazione.
Proprio l’analisi di quest’ultimo periodo dimostra la scarsa attendibilità della tesi della responsabilità umana nel riscaldamento globale. Infatti il boom della popolazione mondiale e delle attività industriali (che gli ambientalisti considerano la causa principale del riscaldamento) si è avuto nella seconda metà del XX secolo, quando la popolazione mondiale passa dai 2,5 miliardi del 1950 ai circa 6 miliardi del 2000 (periodo per metà caratterizzato da un raffreddamento), mentre il periodo del massimo riscaldamento (1910-1940) coincide con una popolazione che varia tra 1,6 e 2 miliardi e il periodo di crisi industriale legato alla Grande Depressione.
E le emissioni di CO2? Intanto dovremmo creare un comitato per la difesa dell’anidride carbonica così ingiustamente demonizzata, visto che è uno degli elementi fondamentali che permette la vita sulla Terra. Ricordiamo anche che l’esplosione di forme di vita sul nostro pianeta 550 milioni di anni fa coincise con livelli di CO2 18 volte più alti di quelli attuali, e nel Giurassico, al tempo dei dinosauri, i livelli erano nove volte più alti. Il ruolo della CO2 nell’incremento delle temperature è ancora molto discusso fra scienziati, anche perché sul lungo periodo non esiste una correlazione tra temperature e concentrazione di CO2. Peraltro il gas serra di gran lunga più importante è il vapore acqueo, che rappresenta circa il 95% del totale, la CO2 appena il 3,6%. Se poi analizziamo il contributo umano alle emissioni di CO2, questo è quantificabile intorno al 4%, C’è ancora un altro aspetto che dovrebbe essere considerato quando si mette sotto accusa l’uomo per i cambiamenti climatici globali: i continenti rappresentano appena il 30% del globo terrestre (il resto è acqua), e delle terre emerse gli insediamenti umani occupano l’1%. Anche per un profano della scienza risulta molto più realistico pensare che il clima abbia più a che fare con cause naturali – attività solare, inclinazione dell’asse terrestre e così via – piuttosto che con l’attività dell’uomo.
Allora – si dirà – come mai gli scienziati sono tutti d’accordo con la tesi di un riscaldamento globale causato dall’uomo? Anche se questo consenso ci fosse, questo non significherebbe molto ai fini della verità, perché in scienza non vale il principio della democrazia. Tanto è vero che storicamente molte delle grandi scoperte scientifiche sono state duramente avversate dalla scienza ufficiale. Piuttosto è vero che se a suo tempo ci fosse stata l’Onu, Galileo Galilei avrebbe avuto la vita molto più difficile. Ma ad ogni modo anche il “consenso degli scienziati” è una clamorosa bufala: la prova più evidente viene da una ricerca pubblicata poche settimane fa negli USA: il professor Klaus-Martin Schulte ha preso in esame le 528 ricerche sui cambiamenti climatici pubblicate tra il 2004 e il febbraio 2007 sulle riviste scientifiche certificate: ebbene solo il 7% di questi studi sostiene esplicitamente la tesi della causa umana, che diventano 45% se si considerano quelli che l’accettano senza dare esplicito sostegno. La parte più consistente degli studi invece (48%) ignora completamente la questione. Chi sono dunque i veri “negazionisti”?
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